L’amore ci riesce – Omelia di Domenica 5 maggio 2024 – VI di Pasqua – B

4 Maggio 2024 alle 10:27 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Meno male che Dio non è come noi, se è vero – come credo lo sia – quello che dice Pietro nella prima lettura di oggi: “Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Lui che potrebbe permettersi di giudicare e distinguere gli uomini tra buoni e cattivi (in quanto conosce le intenzioni di ogni cuore) tralascia di farlo: ma ciò che è più paradossale è che l’uomo, arrogandosi un diritto che non ha, si permettere di sostituirsi a lui facendo indebite preferenze tra le persone sulla scorta di una presunta conoscenza delle intenzioni del cuore dei suoi simili.

Quando il giudizio di un uomo nei confronti di un suo simile è dato da una legge, le sentenze che egli emette, condivisibili o no che esse siano, rispondono comunque a una logica umana, ed è giusto che sia così. Ma quando il giudizio diventa discriminatorio perché basato esclusivamente su una serie di “pre-giudizi” in base ai quali “bolliamo” gli altri solo per ciò che a noi appaiano, o per “cliché” che la società applica su di loro senza sforzarsi a conoscerne le reali intenzioni del cuore, allora la logica non è più umana: diventa una logica contraria alla logica di Dio, “avversa” a Dio, “avversaria” di Dio. Per dirla in una parola sola, diventa “diabolica”. E purtroppo, è una logica più frequente di quanto pensiamo, anche nei nostri atteggiamenti quotidiani, ogni volta che abbiamo pregiudizi sugli altri.

Se quindi accettiamo come Parola di Dio ciò che abbiamo ascoltato negli Atti degli Apostoli, ne consegue che discriminare le persone per il colore della loro pelle è una logica avversa a quella di Dio; discriminare le persone per il loro credo religioso o per la loro cultura è contrario alla logica di Dio; discriminare le persone per il loro modo di parlare, di agire, di pensare, di comportarsi, di amare, e addirittura di vestirsi e di mangiare, è contrario alla logica di Dio.

Chi può impedire a Dio di attuare il suo piano di salvezza, anche attraverso persone che noi giudichiamo “fuori dalla salvezza” solo perché diverse da noi? E chi siamo noi per dire: “Questa persona è ben accetta a Dio e quest’altra no”?

Sono questioni annose che la comunità dei credenti in Cristo porta con sé sin dai suoi albori. Lo stesso Pietro giunge all’accettazione – all’interno della Chiesa – dei cristiani provenienti dal paganesimo solo dopo un lento processo di conversione personale che sfocia nella famosa “visione di Giaffa”, descritta proprio in questo capitolo 10 da cui è tratta la prima lettura, nella quale Dio gli appare dicendogli di non dichiarare “indegno” ciò che Dio ha giudicato degno di sé, anche se apparentemente diverso da ciò che Pietro poteva avere in mente.

Liberarci da una mentalità pregiudiziale e discriminatoria nei confronti delle persone richiede quindi anche per noi un cammino di conversione che ha il suo punto di partenza nella presa di coscienza del nostro nulla di fronte a Dio, sapendo che è lui, e non noi, che prende l’iniziativa di salvarci: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”; e questa sua iniziativa ha come punto di arrivo la logica dell’amore di Gesù Cristo, un amore che raggiunge il suo culmine quando arriva a dare la vita per le persone che si amano.

Pare proprio che il Dio di Gesù Cristo non conosca altra logica che quella dell’amore. E la logica dell’amore sembra proprio essere l’unica capace ancora di dare speranza alla nostra vita.

Perché l’amore non fa distinzione di persone: l’amore sa rialzare chi cade ai tuoi piedi, anche chi a volte si prostra davanti a te per adorarti, come Cornelio con Pietro, ma poi la sua adorazione nasconde doppi fini;

l’amore non si stupisce di nulla di ciò che è buono, l’amore non impedisce ad alcun uomo di essere salvato, anzi, piuttosto salva anche tutti quelli che noi, con troppa facilità, condanniamo;

l’amore ti permette di conoscere Dio, perché Dio è amore, e dove due persone si amano sinceramente, lì c’è Dio.

L’amore fa rimanere Dio nel cuore delle persone e le persone nel cuore di Dio; l’amore è l’unico comandamento che Gesù Cristo ci ha lasciato, e ogni altro comandamento, precetto o regola non contano nulla, rispetto all’amore, perché solo l’amore è fonte di gioia piena;

l’amore è l’unica cosa che ci può spingere a spendere, a sprecare la nostra vita per gli altri;

l’amore ci permette di sentirci “amici” e non “servi” di Dio, perché – paradossalmente – lui, per amarci, si è fatto nostro servo;

l’amore porta sempre frutti, e solo frutti buoni;

l’amore ottiene tutto, anche ciò che il mondo è abituato a chiedere con la violenza e con la guerra. Non esiste alcuna strategia, né alcun’arma, né alcun decreto, né alcun potere politico, né alcuna manovra finanziaria, né alcun piano terapeutico, né alcuna adeguamento ecologico, né alcuna organizzazione internazionale capace di convincere gli uomini a credere che un mondo più giusto è possibile: solo l’amore ci riesce.

Attaccati al Signore: e sei protagonista! – Omelia di Domenica 28 aprile 2024 – V di Pasqua – B

27 aprile 2024 alle 11:56 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

In queste domeniche del Tempo di Pasqua, i brani di Vangelo ci mettono a confronto con un Gesù particolarmente “attivo” e protagonista; un Gesù, potremmo dire, che “ci mette la faccia”.

Al di là delle narrazioni di apparizione ai discepoli dopo la sua Resurrezione, nelle quali è sempre lui che prende l’iniziativa (data anche l’incapacità di riconoscerlo risorto e vivo da parte dei suoi seguaci), nella scorsa e nell’odierna domenica Gesù si presenta nel Vangelo con l’affermazione “Io sono”. Sappiamo bene che l’evangelista Giovanni utilizza questa espressione non solo per presentare Gesù ai suoi uditori, ma anche per ribadire la sua divinità, dal momento che “Io sono”, nella Bibbia e nella tradizione ebraica, è l’espressione con cui Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente, e quindi è il modo che Dio sceglie per rivelarsi al suo popolo. A questa espressione “Io sono”, Giovanni ha associato due paragoni, due piccole “parabole”: domenica scorsa quella del Pastore e oggi quella della Vite. Entrambe le parabole, così diverse nella loro espressione, hanno però un messaggio in comune: quello di trasmettere la forza della vita che ci viene dall’incontro con Gesù risorto. Il Buon Pastore si presenta come colui che dà la vita (e la vita in abbondanza) per le sue pecore; la Vite – come ogni albero da frutto – comunica vita proprio attraverso la produzione dei frutti.

Per quest’ultima parabola, quella di oggi, il Signore avrebbe potuto trovare la similitudine attraverso qualsiasi albero da frutto; ma il fatto di aver utilizzato la simbologia della vite non è una scelta qualsiasi. Innanzitutto, nella storia d’Israele la vite è sempre stata presa dalla tradizione profetica come simbolo del popolo di Dio: un popolo che ha ricevuto da Dio tutte le cure immaginabili e possibili (come un vignaiolo fa con la propria vigna) ma che spesso ha dato frutti immangiabili, se non addirittura dannosi. Inoltre, la vite non è un albero da frutto come gli altri. Se, infatti, gli altri alberi da frutto hanno una struttura che permette loro di essere utilizzati anche qualora non facessero frutti (anche solo per l’ombra e il riparo, ma comunque il loro legno è utilizzabile anche per la costruzione di mobili o altro), l’albero della vite serve esclusivamente per dare frutto. E Gesù, nel Vangelo di oggi, ce lo dice molto chiaramente: “Chi non rimane in me, viene gettato via come il tralcio e secca: poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. E morta lì.

C’è ben poco da fare: unico scopo dell’albero della vite è di produrre uva, e uva buona, dalla quale peraltro si può trarre anche del buon vino. Questo rimarca ancor di più il fatto che un ramo, un pezzo di legno di vite (in termine tecnico, un “tralcio”) se non rimane attaccato al proprio fusto, al proprio albero, non serve neppure per farne un asse da ponteggio! Serve solo a essere bruciato: e per di più, non fa nemmeno una gran bella fiamma.

Quel protagonismo di Gesù di cui parlavamo all’inizio, allora, nella parabola della vite si fa davvero forte: è lui la Vite “vera” (a dispetto di altre viti che producono frutti inservibili); noi non siamo neppure i frutti, bensì i tralci, i rami; se non rimaniamo attaccati a lui, finiamo per essere buttati via e bruciati; la produzione (i buoni frutti) non si deve certo alle nostre buone opere, ma all’opera del vignaiolo, dell’agricoltore, che non è neppure Gesù, bensì il Padre. È lui che cura la vite; è lui che taglia dove deve tagliare per gettare via ciò che non serve; è lui che, al momento della potatura, agisce sui tralci che danno frutti buoni perché al momento della vendemmia, portino ancor più frutto.

E noi? In tutta questa storia, che ci stiamo a fare? Dov’è la nostra opera? Dov’è la nostra attività? Qual è il nostro compito, in questa piantagione? Una pubblicità dei tempi della mia gioventù diceva che era sufficiente assumere una bevanda…ed eri protagonista! In questa parabola della Vite, cosa vuol dire per noi essere protagonisti? Fondamentalmente, una cosa sola: rimanere uniti a Gesù, rimanere in lui. Che tra l’altro è ciò che, nella loro semplicità e nella loro assoluta mancanza di formazione biblica e teologica, i nostri vecchi ci raccomandavano: “Stai attaccato al Signore!”. Senza di lui, non possiamo fare nulla.

E questo ci insegna molte cose: ci insegna che non siamo noi l’albero, e quindi non siamo noi a mettere radici nel terreno, cioè a dare inizio alla nostra storia. Il mondo, anche quel pezzo di mondo in cui siamo inseriti e viviamo, non l’abbiamo creato noi, non dipende da noi, e non morirà con noi.

Ci insegna che non siamo noi i frutti, perché il grappolo d’uva è certamente attaccato al tralcio e dipende dal tralcio, così come il tralcio è attaccato e dipende dalla vite, ma il frutto è comunque altro da noi, per cui nessuno di noi può avere la pretesa di vantare il proprio protagonismo sui frutti che produce, né tantomeno avere la pretesa di raccogliere i frutti del proprio lavoro, perché verranno sempre dopo di noi, a volte anche lontano da noi, e saranno altri a goderne.

Ci insegna, inoltre, che non siamo neppure i vignaioli, i coltivatori di questa vigna: il vignaiolo, l’agricoltore, è un Altro. È lui che decide dove tagliare e gettare via; è lui che decide dove potare perché la vite dia buoni frutti; è lui, e non le nostre opere di ascesi, di sacrificio e di purificazione, a decidere dove e quando portare frutto.

Tutto questo ci aiuti, sempre più, a comprendere quella frase che i nostri vecchi ci raccomandavano: “Stai attaccato al Signore!”. Non è una frase vecchia, ammuffita o anacronistica: in tutta questa selva di rovi, di sterpagli e di arbusti nella quale ci troviamo a vivere, forse Gesù vera Vite è ancora l’unico albero a cui vale la pena rimanere attaccati!

Il plusvalore dell’amore – Omelia di Domenica 21 aprile 2024 – IV di Pasqua – B

18 aprile 2024 alle 19:01 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Da sempre, la quarta domenica del Tempo di Pasqua è dedicata alla figura di Cristo Buon Pastore, in quanto la Liturgia ci presenta la lettura di un breve brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si rivolge prima ai suoi discepoli e poi a un gruppo di Giudei suoi oppositori attraverso una parabola, un po’ diversa dalle solite come “insolito” è il Vangelo di Giovanni. Gesù si presenta come il “Buon Pastore”, richiamando una figura cara all’Antico Testamento, e in modo particolare alla tradizione profetica, nella quale il pastore si identifica non solo con i capi d’Israele (per la verità non sempre così solleciti verso le necessità del popolo), ma anche e soprattutto con la figura paterna e amorevole di Dio Padre (come narra, ad esempio, il capitolo 34 del libro di Ezechiele). Nel solco della tradizione profetica, allora, Gesù presenta l’ideale della figura del pastore, ovvero del responsabile di una comunità, il quale dev’essere – a imitazione della bontà di Dio – pronto a tutto per le sue pecore, addirittura a “dare la vita” per esse.

In questo senso, il pastore si distingue dal “mercenario”: questo termine deve la propria origine all’ambiente militare, e si riferisce al soldato che combatte una guerra non per amore della patria, ma per amore del denaro, e quindi si offre all’esercito che meglio lo paga. Applicato al mondo agropastorale, si tratta di un qualsiasi operaio che ha come unico scopo quello di guadagnare il più possibile, magari con il minimo sforzo, per cui si guarda bene dal metterci passione in ciò che fa. Al punto che, in una situazione di pericolo o d’insicurezza, una volta assicuratosi il proprio stipendio, se la fila a gambe levate, lasciando al loro destino le pecore che gli sono state affidate, proprio perché non sono sue. Tant’è, un altro padrone lo troverà comunque, e anche da quello cercherà di lucrare il più possibile…

È proprio su questa contrapposizione tra “appassionato” e “mestierante” che Gesù fa perno per far comprendere ai propri uditori quale sia, nell’esercizio della responsabilità, l’elemento discriminante tra i due, ovvero l’Amore. Chi fa le cose per denaro, per uno scopo di lucro, per guadagnare, non necessariamente fa una cosa illecita: non fa altro che entrare nella logica del mercato. A una prestazione corrisponde un salario, al di là della passione che ci si mette nel farlo: la passione non ha prezzo, e quindi non può essere retribuita. La passione non ha prezzo perché l’Amore non ha prezzo; e con esso, non ha prezzo la bellezza dell’opera e del lavoro realizzati. Una cosa fatta per dovere o secondo logiche di mercato, ha un valore e come tale va pagata, anche per un criterio di giustizia sociale; ma la stessa cosa fatta con amore ha un plusvalore a cui nessun datore di lavoro riconoscerà un bonus, eppure esso rappresenta il valore aggiunto dell’opera realizzata. Quel valore aggiunto che, se quantificato o pagato, farebbe perdere bellezza e splendore a quanto compiuto.

La camera riordinata da una cameriera o da un’impresa di pulizie, per quanto fatta con dedizione e scrupolo e nel rispetto dei tempi stabiliti dal contratto, non avrà mai il profumo, la bellezza e l’armonia di una stanza da letto riordinata da una sposa innamorata. Il piatto di spaghetti della mamma ha un sapore infinitamente più intenso che qualsiasi piatto raffinato preparato dal più blasonato degli chef. Una funzione autoritaria esercitata con passione e autorevolezza è incommensurabilmente più grande di qualsiasi prestazione tecnicamente e professionalmente competente, sia pur espletata con il massimo del rigore. Un prete scalcinato che, pur pieno di difetti e limiti umani come ogni persona, ha passione per i ragazzi del proprio oratorio e dona a loro fino all’ultimo minuto della propria giornata senza risparmiarsi, vale infinitamente di più del miglior educatore professionale, del più moderno degli animatori di piazza e del più titolato cattedratico di scienze dell’educazione che possano mettere a disposizione la loro competenza per rendere un centro giovanile un luogo di educazione con la “E” maiuscola.

C’è poco da fare, per avere passione dell’uomo occorre saper amare: è dall’amore che nasce la passione. Senza amore di fondo, senza passione per l’altro, per la persona che mi è stata affidata e che ha bisogno delle mie cure, non sarò mai in grado di essere un valido responsabile o – per dirla con Gesù – un Buon Pastore.

Io credo che i consacrati di ogni paese della terra dovrebbero preoccuparsi di meno di stare a perdere il loro tempo a cercare di essere teologicamente corretti, liturgicamente preparati, pedagogicamente adeguati e mediaticamente efficaci, quando hanno la certezza – che ci viene dalla Parola di Dio – che ciò che è fatto per amore e con amore è fatto a immagine di Cristo Buon Pastore, per cui sarà sempre assolutamente credibile!

Quanto siamo lontani dall’aver compreso che a nulla vale la competenza delle scienze, degli studi, dell’esperienza e dell’autorità, se non siamo testimoni autorevoli e credibili dell’amore che da Dio abbiamo ricevuto e per suo comando siamo tenuti a donare!

La miglior azione pastorale rimane quella della testimonianza. E l’unica testimonianza credibile è quella di chi sa amare. Perché – come diceva il grande Von Balthasar oltre sessant’anni fa – “solo l’amore è credibile”.

Cominciando da Gerusalemme – Omelia di Domenica 14 aprile 2024 – III di Pasqua – B

13 aprile 2024 alle 11:22 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

È difficile che, dove abbiamo avuto un insuccesso, ci ritroviamo dopo poco tempo a rischiare di commettere lo stesso errore. Così come, se in un posto ci siamo trovati male o abbiamo avuto qualche problema con qualcuno, difficilmente ci torniamo: cerchiamo di cambiare ambiente o – se questo non è possibile – vediamo quantomeno di evitare di frequentare luoghi pubblici dove potremmo avere incontri sgraditi o poco piacevoli. Come quando ci capita di incrociare qualche persona che preferiremmo non vedere: la cosa più naturale che ci viene da fare è di cambiare strada… Tutto sommato, sono atteggiamenti comprensibili: a nessuno piace rivivere situazioni spiacevoli o che fanno soffrire. Si cerca sempre di guardare da un’altra parte, dimenticando il passato, fintanto che è possibile.

Credo che sia questo il sentimento che albergava nel cuore degli Undici, dopo la morte di Gesù: dimenticare ciò che era avvenuto e cercare di guardare avanti, superando il momento di smarrimento. Soprattutto, bisognava trovare l’occasione di uscire dal Cenacolo e di lasciare Gerusalemme, sperando di evitare incontri spiacevoli con tutte quelle persone – e non erano poche – che avevano dato la caccia a Gesù, riuscendo poi a metterlo a morte. Oltre tutto, dentro di loro c’era anche una grande paura: sapevano benissimo che da un momento all’altro avrebbero potuto essere scoperti e, con ogni probabilità, processati come seguaci di questa pericolosa dottrina predicata dal loro Maestro. Un Maestro che, peraltro, li aveva lasciati con tutta una serie di insegnamenti e di ricordi preziosissimi, ma senza dare loro una struttura ben definita. Gesù non aveva certo pensato al proprio successore, a un “capo” degli Undici: sì, aveva chiesto a Pietro di essere un punto di riferimento per gli altri, di confermare la loro fede nel momento della prova, ma alla fine non è che si sia rivelato particolarmente “affidabile” come capo e guida…

Insomma: gli Undici (e con loro un numero non ben definito di altri discepoli e discepole) si trovavano in una situazione nella quale, senza un leader e con il cuore turbato per tutto ciò che stavano vivendo, dovevano trovare il modo per lasciare Gerusalemme e ricominciare da capo, possibilmente in Galilea, dove tutto era iniziato e dove avevano lasciato i loro mestieri, le loro case, i loro affetti.

In questo contesto, due di loro erano entrati di corsa nel Cenacolo a raccontare di aver incontrato, mentre stavano tornando al loro villaggio di Emmaus, il Maestro nuovamente in vita, senza peraltro riconoscerlo se non dopo che egli aveva spezzato il pane con loro a tavola. Non solo: proprio mentre questi due stavano raccontando agli altri ciò che era loro capitato, Gesù in persona si presenta in mezzo a tutti. E non si presenta in un modo qualsiasi. Luca ci dice, nel brano di Vangelo di oggi, che Gesù “stette in mezzo a loro e disse: Pace a voi!”. Se è vero, come spesso si sente dire, che la verità delle cose sta nei dettagli, allora questi particolari di Luca ci vogliono davvero insegnare qualcosa riguardo a ciò che abbiamo detto prima.

Innanzitutto, le prime parole di Gesù: “Pace a voi!”. Che è diverso da quel “la pace sia con voi” che spesso ripetiamo nella Liturgia. Il nostro, infatti, è un augurio: quello di Gesù, invece, è un dono. Il primo dono del Risorto, allora, è la pace: una pace che viene a tranquillizzare, a portare serenità nel cuore turbato di questi poveri pescatori di Galilea che confondono il Maestro con un fantasma, al punto che Gesù deve chiedere loro qualcosa da mangiare per dimostrare che non si tratta di un incubo, di un’apparizione, di una suggestione collettiva – come se ne vedono tante anche in presunti luoghi di culto – ma di una presenza reale, viva, talmente viva che prima ha spezzato il pane con i due di Emmaus e ora condivide un pasto con tutti gli altri. Il cuore turbato ritrova la sua pace nel momento in cui sente di poter condividere la propria vita di ogni giorno con una comunità di fratelli nel gesto più semplice, quello della convivialità, del mangiare e dello stare insieme.

L’altro particolare riguarda la mancanza di un leader all’interno di quella piccola comunità. Chiaramente, ritornando Gesù, questa assenza veniva meno: tutti sapevano bene chi fosse il capo. Ma è il modo di essere “leader” da parte di Gesù che cattura la nostra attenzione e quella dei discepoli. Gesù non si mette di fronte o sopra gli altri, quasi a ribadire la sua autorità: Gesù “stette in mezzo a loro”, si pone in mezzo, seduto fra loro, come uno di loro, senza emergere né comandare, perché l’ultimo gesto che aveva compiuto in mezzo a loro prima della Pasqua era stato quello della lavanda dei piedi, quello del servizio. Quasi a dire: “Volete un leader? Fatevi servi degli altri, state in mezzo agli altri senza emergere né comandare, ma con il desiderio nel cuore di servire i fratelli”.

E poi termina questo primo incontro con la sua comunità facendo un ripasso di quanto già detto ai due incontrati sulla strada di Emmaus: “Aprì loro la mente alle Scritture”. Per essere testimoni del Risorto, bisogna capire cosa è stata la vicenda storica di Gesù alla luce delle Scritture, altrimenti non è possibile annunciare agli altri ciò che non si è compreso. E per comprendere occorre “aprire la mente”, cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere le cose su Gesù e sulla fede: in una parola, occorre “convertirsi”. E sarà proprio la conversione, il cambio di mentalità su Dio, il tema della predicazione degli apostoli nella seconda opera di Luca, gli Atti. O capisci che Dio per salvare l’umanità si fa servo dell’umanità, oppure continuerai a pensare in un Dio che comanda, che governa, che ordina, che sottomette: ma che non libera e non salva. Questo è il compito della Chiesa: annunciare che Gesù è Risorto, è vivo, e vuole che cambiamo mentalità su di lui. Perché rimanere fissi e schematici sulla nostra idea di Dio non è certo segno di Resurrezione.

Manca un ultimo piccolo particolare: da dove devono iniziare, gli Apostoli? Dall’inizio, tornando in Galilea alla vita di prima? No: Gesù chiede loro di “cominciare da Gerusalemme”, da quella città dalla quale volevano nascondersi e scappare. C’è poco da fare: la vita nuova nel Risorto non è un ritorno felice al passato, ma è un nuovo inizio, a partire da Gerusalemme, da quella città santa che pensa di non avere bisogno di conversione e che, forse, si mostrerà ostile contro di loro.

Ora, però, i discepoli sanno – e lo sappiamo anche noi – di non essere più soli.

Nel dubbio, io credo… – Omelia di Domenica 7 aprile 2024 – II di Pasqua – B

6 aprile 2024 alle 00:15 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Nel dubbio, lo faccio, poi si vedrà”: è una delle affermazioni più comuni, nel nostro quotidiano parlare. Quando non siamo sicuri di cosa sia bene fare o non fare, preferiamo scegliere di fare qualcosa, anche se magari non è corretto, e poi nel caso lo aggiusteremo. Non è un atteggiamento errato: meglio sbagliare facendo qualcosa che starsene inerti perché ci si sente nel dubbio: così nessuno farebbe più nulla, per cui, “nel dubbio”, facciamo qualcosa. Se aspettassimo di avere la certezza che tutto ciò che facciamo va bene, stiamo fritti!

Il dubbio, così come il rischio, è una componente fondamentale del nostro agire. E anche del nostro pensare. Addirittura, del nostro credere: credere senza avere dubbi, o credere con l’assoluta certezza che ciò in cui crediamo è proprio così come lo crediamo, a mio avviso non è un’autentica esperienza di fede. Sarebbe una certezza scientifica, non una fede. Ecco perché ho sempre provato una certa simpatia per coloro che di fronte a una realtà così misteriosa e piena di fascino come l’Assoluto si sono posti degli interrogativi, con tutta una serie di dubbi che sanno molto di desiderio di ricerca.

            Non mi riferisco solo ai filosofi, agli scienziati o ai pensatori laici di ogni epoca, che sottopongono la Rivelazione a tutta una serie di prove oggettive; mi riferisco soprattutto ai grandi credenti di ogni religione, ai santi della nostra tradizione cristiana, pochi dei quali possono vantare una vita spirituale priva di ombre, di incertezze, di dubbi, di passi falsi e anche di incoerenze. Da Pietro che non riesce a camminare sulle acque perché dubita dell’aiuto di Gesù, fino ai testi di Madre Teresa di Calcutta in cui definisce se stessa in uno stato di “notte perenne” rispetto a Dio, passando attraverso le esperienze drammatiche della spiritualità dell’angoscia di Giovanni della Croce, di Teresa d’Avila, di Francesco d’Assisi… quanti dubbi anche tra i più santi dei credenti! E allora, come è possibile dare del miscredente a Tommaso, solo perché ha voluto vederci chiaro di fronte al Maestro, morto in croce, ma che tutti affermavano aver visto nuovamente in vita? Un miscredente non se ne esce con espressioni così meravigliose come quella di oggi: “Mio Signore e mio Dio”.

            Chi di noi non ha mai avuto dubbi di fede? Chi di noi, pur professandosi credente e cercando di condurre una vita il più possibile coerente con gli insegnamenti del Vangelo, non si è mai posto delle domande, implicite o esplicite, su Dio? Del tipo: “Ma questo fatto della Resurrezione di Gesù dai Morti, com’è scientificamente e storicamente provato?”; “Se Dio esiste davvero ed è buono, perché c’è il male nel mondo? E perché lui lo permette?”; “Perché devo credere in Dio, se anche da un punto di vista puramente umano posso comportarmi come si comporta un credente, e magari anche meglio, considerata l’incoerenza di vita di tanti cristiani?”;“Dov’è Dio, quando ho bisogno di lui…?”. E chi più ne ha, più ne metta.

            Tutti siamo così: un po’ santi e un po’ dannati, un po’ credenti e un po’ atei, un po’ devoti e un po’ dubbiosi. Tutti, anche – o forse soprattutto – coloro che hanno più familiarità con Dio, anche noi che viviamo delle “cose di Dio”, anche noi che abbiamo consacrato la nostra vita a lui. Se noi uomini e donne di Chiesa vivessimo un’esperienza di Dio priva di domande, di interrogativi, di battute d’arresto, correremo il rischio di essere gente senza prove, e quindi senza sofferenze, e quindi senza croci, ovvero privi di passione.

            Dio ci liberi dall’essere cristiani privi di domande su di Lui, cristiani che non fanno fatica a stargli dietro, cristiani senza passione che non carichino sulle proprie spalle la croce e non lo seguono, perché ciò vorrebbe dire che non siamo degni di essere chiamati suoi discepoli! Dio ci liberi da una fede talmente sicura di sé da diventare orgogliosa, superba, oppressiva, disprezzante nei confronti di chi fa fatica a credere perché provato dalla vita! E Gesù liberi la sua Chiesa da uomini e donne che per il solo fatto di essere battezzati o di essersi consacrati a lui si sentono incrollabili nella fede, imperturbabili e perfetti.

La Chiesa e il mondo, oggi, non hanno bisogno di “signori” della fede, perché oggi come allora c’è un solo Signore e un solo Dio, quello che ha pazienza, che ti usa misericordia, ti rialza quando la tua fede vacilla, e che ti porta poi a professare come Tommaso: “Tu sei il Mio Signore; Tu sei il Mio Dio”.

La Chiesa e il mondo, oggi, hanno bisogno di testimoni credibili della fede, di gente che fa fatica, che a proposito di Dio ha mille dubbi al giorno, ma che nonostante tutto è capace di affidarsi a lui e di andare avanti, perché sa che è lui a condurre la nostra vita. Occorre, soprattutto, gente che non vive la sua esperienza di fede come un fatto isolato nel quale sentirsi bene con Dio, ma come un momento di condivisione con una comunità di fratelli, che vive delle stesse gioie e delle stesse fatiche del credere.

L’errore di Tommaso non è stato quello di dubitare, ma il fatto di voler fare a meno di stare con i suoi fratelli, di separarsi da loro già la sera stessa di Pasqua, di volersi costruire una fede a sua misura, che poi crolla nel momento della solitudine e dell’incertezza. Tommaso salverà la sua fede “otto giorni dopo”, cioè nel Giorno del Signore – la domenica – il giorno in cui accetterà di tornare a riunirsi con la sua misera e titubante comunità per essere, con i suoi fratelli, “un cuor solo e un’anima sola”, pur senza togliere tutta la fatica del credere.

Perché nessun cristiano, per quanto personalmente perfetto, può sperare di salvarsi da solo, senza fare riferimento a una comunità di fede. E soprattutto, nessuno può avere la pretesa e la superbia di ritenersi capace di salvezza senza mai essere passato attraverso l’esperienza difficile ma appassionante del dubbio di fede. Perché allora, in fin dei conti, vorrebbe dire annunciare la luce del Cristo Risorto senza essere, prima, passato attraverso il buio del Calvario, della croce e del sepolcro.

E allora, non mi vergogno di dire che, nel dubbio, io credo: anzi, non mi vergognerò mai nemmeno di dire che credo nel dubbio, dubitando, e nonostante il dubbio.

Magari, invece, è il Dio della Vita! – Omelia di Domenica 31 marzo 2024 – Pasqua di Resurrezione

30 marzo 2024 alle 12:41 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Quante volte, nella vita, abbiamo detto – e ci abbiamo anche provato! – di voler “risorgere a vita nuova” da situazioni difficili e complicate… e poi non ci siamo riusciti.

Magari, un giorno ci siamo imbattuti nel buio della noia, del “non senso” delle cose, della depressione, di quel “male di vivere” che ti corrode dentro e chi ti fa vedere e sentire tutto pesante, impossibile da portare avanti, a volte addirittura catastrofico.

Magari, abbiamo anche chiesto aiuto e quasi tutti, anche tra coloro che ritenevamo fossero nostri amici, ci hanno detto di no, prendendo la scusa che loro non potevano fare molto, che non si ritenevano in grado di aiutarci, che per queste situazioni ci volevano persone competenti…. Poi, finalmente, le persone competenti le abbiamo trovate: e ci siamo sentiti dire che molto dipendeva da noi, dalla nostra forza di volontà, dalla nostra capacità di reagire… Certo, è tutto terribilmente vero: ma quando poi torni a casa, e questa forza di volontà ti viene meno, e questa capacità di reagire ti manca e ti ritrovi solo, cosa fai?

Magari, invece, questo “male che ti corrode dentro” un giorno è stato proprio un male fisico, di quelli che invalidano, di quelli che uccidono, e magari non ha colpito te – altrimenti non saresti qui a parlarne – però ha colpito i tuoi affetti e i loro volti concreti, quelli del tuo papà, della tua mamma, del tuo sposo, di tua figlia, di tuo fratello, della tua amica… e te li ha portati via. Il mondo intero pare proprio caderti addosso… e anche lì, per quanto possa avere persone buone che stanno al tuo fianco, alla fine sei da solo, solo con il tuo dolore…

O magari, il male ce l’hai dentro perché te l’ha fatto qualcun altro; magari proprio quel qualcuno che non ti aspetteresti mai, quello di cui ti fidavi di più, quello “che mangiava il pane con te” – direbbe la Bibbia -, quello che amavi più di ogni altra cosa al mondo, quello con cui ti sei sentito “un metro sopra il cielo” e che poi invece ti ha sbattuto tre metri sotto terra, perché la terra ti è crollata sotto i piedi e ti ha sepolto. Poi, magari, arriva l’amico o l’amica di turno che tenta di consolarti: “Ci sono passata anch’io”… “Devi rifarti una vita”… “Dai, sei ancora giovane”… Hanno tutti un bel dire… però intanto la dignità ferita è la tua, e i cerotti sul cuore te li devi mettere tu, e ancora una volta in perfetta solitudine.

E magari ti ha fatto del male chi ti ha detto che “da qualche parte bisogna tagliare con le spese”, per cui tu domani sei a casa dal lavoro, alla meno peggio in cassa integrazione perché, se è crisi, è crisi per tutti, tranne per chi non fa mai parte dei “tutti”, perché c’è sempre chi ha la grammatica apposta, quella con le voci del verbo “avere”, “potere” e “tener stretto”… Tu intanto sei a casa, e non è vero che “trovi sempre qualcosa da fare”, perché a 45 anni, per il mondo del lavoro, se vuoi ricominciare, sei già vecchio, e soprattutto, un’altra volta, sei da solo…

            A volte ti viene da pensare che l’unica soluzione sia quella di Nicodemo e di Giuseppe d’Arimatea: metterci una pietra sopra. E morta lì.

Però, magari, c’è anche una storia dal finale diverso. A me, per esempio, è stato detto che quella pietra, per quanto pesante fosse, era stata rotolata via, e che il sepolcro era stato trovato vuoto.

A me hanno raccontato che una donna stava piangendo per un amico morto, ma che si è sentita chiamare per nome da lui…

E mi hanno raccontato anche di due uomini depressi che tornavano da una festa terminata in tragedia perché era stato ucciso il loro capogruppo, ma che fermandosi a mangiare un boccone in un locale gli è parso di vederlo ancora vivo a tavola con loro, ed erano talmente contenti e convinti di questa cosa che sono tornati dagli altri della compagnia a dir loro che non era finito nulla, e che aveva ancora senso vivere.

E mi hanno pure detto che dei pescatori avevano perso la barca, le reti e il posto di lavoro, ma han cercato comunque di pescare tutta la notte (inutilmente, ovviamente) e invece all’alba si son sentiti dire: “Non mollare, getta ancora la rete”, e han fatto il colpo dell’anno!

E che tutta questa gente, alla fine, si è ritrovata insieme, un pomeriggio, tra i monti della Galilea, per ascoltare una Parola che diceva loro: “Non siete soli, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Magari, quella Parola, oggi, ci racconta che non dobbiamo più credere al dolore come ultima e definitiva parola sulla nostra vita.

Magari, Colui che l’ha proclamata, oggi, vuole dirci che dobbiamo tornare a credere nell’Amore, perché l’Amore è più forte anche della morte.

Magari – visto che “magari” è un avverbio che significa “felici” – quella tomba trovata desolatamente vuota al mattino del primo giorno dopo il sabato, è lì proprio per renderci felici.

Di sicuro, ci vuole ostinati a credere ancora, nonostante tutto, nel Dio della Vita.

Che cos’è la verità? – Omelia del Venerdì Santo – 29 marzo 2024

29 marzo 2024 alle 12:06 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

“Che cos’è la verità?”. Con questa lapidaria domanda, Pilato termina la propria requisitoria nei confronti di Gesù, prima di entrare in quel turbine fatto di dichiarazioni e di smentite, di sentenze e di ricorsi, di veleni, minacce ed episodi di concussione che porterà alla condanna di Gesù, nella paradossale convinzione della sua assoluta innocenza.

            “Che cos’è la verità?”. Gesù, nel suo interrogatorio di fronte a Pilato, risponde a tutte le domande che gli vengono poste, eccetto che a due: una è questa, l’altra è quella relativa alla sua origine, alla sua essenza: “Di dove sei?”, vale a dire “Qual è la tua origine, la tua essenza, la tua identità?”. Chi sei, Gesù? Qual è la verità sulla tua persona, sulla tua dottrina, sul tuo messaggio? Gesù non risponde perché la sua risposta la darà più avanti. La sua risposta è la croce, perché la croce è la sua vera identità; perché è la croce, la verità sull’uomo.

Del resto, chi può negarlo? Chi non l’ha mai incontrata sulla sua strada? Chi di noi può dire: “Non so cosa sia la croce”? È talmente diffusa che non può non essere vista; è talmente universale che non c’è luogo della terra in cui non ne esista traccia; è talmente evidente che non può essere ignorata; e soprattutto, è talmente dolorosa che non può non essere avvertita sulla propria pelle. C’è chi la sente su di sé con maggior intensità, c’è chi invece ha tanta forza da sopportarla quasi con naturalezza. E a ognuno di noi si manifesta in maniera diversa: sarà prolungata come una malattia grave, per sé o per qualcuno dei propri cari, oppure breve come un malessere passeggero; sarà pesante come uno stato di disperazione profonda dentro il quale non si intravede una luce, oppure leggera come una piccola delusione; sarà sconvolgente, come quando il cuore va in frantumi, oppure impercettibile come una piccola scossa che ci risveglia da un sonno: ma è pur sempre croce. E ci colpisce tutti: grandi e piccini, giovani e anziani, in ogni istante della vita. E la si sente frequentemente, molto più che la gioia: al punto che spesso arriviamo a pensare che la vita sia tutta una croce, una serie di croci, una dietro l’altra, il cui peso e il cui carico poco a poco ti schiacciano, e cadi non una, e nemmeno tre volte soltanto, ma in continuazione, sentendoti sempre più debole e sempre più incapace a portarla.

Sì, perché è un bel dire che “la croce portata con rassegnazione ti tempra e ti rende più forte di fronte alla vita”: queste cose di solito le dici quando la croce che hai sulle spalle non è troppo pesante. Ma quando la croce si chiama povertà, miseria, guerra, fame, violenza, disperazione, voglia di farla finita, mancanza di amore, mancanza di lavoro, insicurezza per il futuro, malattia terminale, o infinito male di vivere…ti resta solo una speranza: che tutto finisca presto, e che giunga il Destino, oppure Dio – se hai la fortuna di crederci – a mettere la parola “fine” su tutto. Ci fosse anche solo, ogni tanto, un Simone di Cirene qualsiasi a rendere meno pesante la nostra Via Crucis…

Oggi, sulla via del Calvario, questa speranza assume un Volto, sia pur insanguinato. È il Volto di Colui che, nonostante la disperazione del Getsemani, non ha paura di caricarsi sulle spalle la sua e la nostra croce. È il Volto di Colui che vive la sua Passione fino in fondo perché non ha altra Passione che l’uomo, e l’uomo in croce. “Appassionato”, appunto: innamorato dell’uomo al punto di aiutarlo – nonostante da lui sia spesso schernito, flagellato, preso in giro e bestemmiato – a portare la sua croce quotidiana.

“Magra consolazione” – potrà pensare qualcuno – “sapere che la croce pesa meno del solito: finché nessuno ce la toglie di dosso, rimarrà comunque!”. È vero: magra consolazione. Ma sono talmente poche le altre possibilità che la nostra natura umana ci offre che vale la pena scommettere su questa: una spalla amica, una mano vicina, che ci allevia – sia pur parzialmente – l’inconcluso dolore di una croce che dalle nostre spalle, purtroppo, non riusciremo mai a scrollarci di dosso.

E poi, a scommettere su un Dio-uomo che si carica sulle spalle una parte delle nostre croci non si sbaglia mai. Se dovesse andar male…tant’è, la croce ce l’eravamo già caricata sulle spalle dalla nascita. Dovesse andar bene, però, può pure succedere che da una croce riesca a rifiorire una speranza di vita. E tra l’altro, con l’Uomo della Croce, da circa duemila anni succede proprio così.

E allora, “Che cos’è la verità?”. Una croce sulle spalle: portata, sopportata, sofferta, condivisa. E – alla fine – risorta.

Nella notte in cui fu tradito – Omelia del Giovedì Santo – Giovedì 28 marzo 2024

28 marzo 2024 alle 16:20 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Più volte nella storia della salvezza Dio ha avuto non poche difficoltà a farsi comprendere dagli uomini. E se questo è dovuto per la stragrande maggioranza dei casi alla loro “dura cervice”, sono frequenti pure i casi in cui la sua volontà si è manifestata in maniera non proprio così limpida. Non è detto che questo avvenga in maniera immediata: ci vuole, anche per questo, il suo tempo. E l’uomo deve affrontare un cammino verso la comprensione del mistero che richiede grandi sforzi, a costo anche di rischiare di perdere la fede, la fiducia in lui. Quante volte, infatti, diciamo: “Ma perché, Dio? Perché succede questo? Perché permetti che capitino certe cose? Perché non ti fai comprendere apertamente? Perché non mi fai capire cosa vuoi da me?”. Sono molti i gesti e le scelte di Dio che fatichiamo a capire, o che comunque riusciamo a capire solo dopo parecchio tempo.

Quella sera, durante la Cena, “quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota di tradirlo” (anche qui, non poteva evitare a satana di mettersi di mezzo?), Gesù compie un gesto molto strano, consapevole che tutto quanto aveva ricevuto era dono di Dio e a lui doveva restituirlo. Ci aspetteremmo quindi un momento importante e definitivo della sua rivelazione ai discepoli come Figlio di Dio: le cose più importanti arrivano sempre “dulcis in fundo”.

Sarà, ma il modo scelto da Gesù per manifestarlo non è proprio dei più comprensibili. Tant’è che – così si presume dalla domanda posta loro da Gesù – nessuno dei suoi discepoli lo comprende. E nessuno fiata, mentre lui lo sta compiendo. L’unico che ha il coraggio di dire ciò che pensa è Simon Pietro, e a lui il Maestro si dirige inizialmente con un atteggiamento di compassione: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, lo capirai dopo”. Poi però, siccome Pietro non solo non comprende, ma si oppone in maniera quasi violenta, allora Gesù è costretto a passare alle minacce: o come dico io, o fuori dal mio Regno! Pietro, da buon passionale, si spaventa e cede alla volontà del Maestro.

Ma che cosa ha fatto Gesù di così incomprensibile da lasciare tutti ammutoliti? Ha fatto ciò che un Maestro non avrebbe mai dovuto fare con i suoi discepoli; men che meno, un Maestro che si è rivelato loro come il Messia, il Figlio di Dio: mettersi a lavare i piedi ai suoi discepoli come il più umile, il più basso, l’ultimo dei servi nei confronti del proprio padrone!

Questo è forse degno di un Dio? Niente affatto! La volontà di Dio è proprio incomprensibile, ai limiti della follia. La logica del Dio di Gesù Cristo è la logica della croce: e la croce, per il pio ebreo, è follia e scandalo. Ma proprio per un incomprensibile disegno della volontà di Dio – così dura da accettare anche per il suo stesso Figlio, questa notte, nel Getsemani – ciò che è motivo di scandalo, di follia, di incomprensione, di offesa all’immagine del Dio potente e immortale, diviene invece causa di salvezza.

Un catino e un grembiule in mano a Dio, da oggetto di disprezzo degno di uno schiavo, in Gesù Cristo diventano segno dell’amore di Dio che si fa servizio obbediente all’umanità: obbediente fino alla morte.

Una coppa di vino e un pezzo di pane, umili segni della quotidianità offerti dal pio ebreo a Dio in segno di gratitudine per i frutti della terra, nelle mani del Figlio di Dio vengono restituiti all’umanità come sacramento universale di salvezza, la cui memoria è tramandata lungo i secoli, “finché egli venga”.

E tutto questo incomprensibile scambio di grazia avvenne in una sola notte, “nella notte in cui fu tradito”; in quella notte in cui Gesù avrebbe desiderato vivere un momento di fraternità e di gioia, come faceva ogni rabbino con i suoi discepoli, e invece, sempre per lo stesso incomprensibile disegno della volontà di Dio, si vede abbandonato da tutti, anche da coloro che gli avevano giurato fedeltà assoluta.

È notte. È l’ora delle tenebre, e come tale anche questa notte deve fare il suo corso. Ma l’incomprensibile volontà di Dio, che ora non possiamo capire, ma come Pietro capiremo solo più tardi, rimane nascosta, quasi in agguato, dietro le misere vicende umane. E il mattino del primo giorno dopo il sabato uscirà finalmente allo scoperto, questa volta senza più misteri.

In cammino, dietro all’Uomo della Croce – Omelia di Domenica 24 marzo 2024 – Domenica delle Palme – B

23 marzo 2024 alle 11:22 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

Al termine del cammino di Quaresima, che ogni anno affrontiamo per prepararci bene alla Settimana più importante della nostra vita di cristiani, ci voltiamo indietro e guardiamo al percorso fatto durante queste sei settimane, possiamo anche correre il rischio ci sentirci un po’ ancora al punto di partenza, e la Pasqua arriverà anche quest’anno, e magari ci troverà un po’ impreparati.

Ma se ci siamo messi anche solo in atteggiamento di ascolto della Parola, nemmeno quel cammino che quest’anno abbiamo iniziato così presto – quando le luci di Natale erano da poco state sostituite con i cuori di San Valentino – sarà stato un cammino inutile o una perdita di tempo.

Se, guardando indietro, ci accorgiamo che avremo avuto il coraggio di affrontare il deserto, per mettere, sì, alla prova noi stessi, ma anche per ascoltare la Parola di Dio che vale addirittura più del pane di ogni giorno, sono certo che non avremo camminato invano, anche se magari a quel cibo particolare che ci eravamo proposti di non mangiare non siamo riusciti a rinunciare totalmente, perché poi la nostra gola è comunque più forte del nostro spirito.

Se ci accorgiamo che avremo fatto lo sforzo di salire sulla montagna all’incontro di Dio e avremo anche affrontato la nube del mistero che spesso ci nasconde il suo volto e ci fa provare paura e smarrimento, sono certo che non avremo camminato invano, anche quando il tempo che avremmo voluto dedicare alla preghiera è stato meno del previsto, perché le preoccupazioni della vita di ogni giorno hanno occupato gran parte dei nostri pensieri, o le mille attività che abbiamo in ballo ci portano a “ballare” su altre piste che non sono quelle della Parola.

Se avremo cercato di mandare all’aria un modo di vivere la fede fasullo, che “mercanteggia” sulle cose di Dio o che arriva a definire “scandalo e stoltezza” la croce, non avremo camminato invano, anche se il nostro rapporto con la croce e la sofferenza è stato di spontaneo rigetto, perché, in fondo, soffrire non piace mai a nessuno.

Se in questo tempo ci saremo innamorati ancor di più di Dio, in risposta al suo amore che è talmente grande da aver compassione di noi anche quando mettiamo a morte suo Figlio, non avremo camminato invano, anche se le opere di misericordia che ci eravamo proposti di fare sono state scarse, e ci siamo accorti solo all’ultimo momento delle necessità dei fratelli che vivono nella casa a fianco della nostra.

Se entrando in chiesa, in queste settimane, avremo avuto il coraggio di fissare un po’ di più il nostro sguardo su Gesù crocifisso, che non è certo un bel vedere, perché a noi Dio piace di più pensarlo come un chicco di frumento, sempre forte e pieno di vita, non avremo camminato invano, anche se in questo periodo, magari, non abbiamo creato grandi occasioni per incontrarci con il Cristo Crocifisso presente sul volto dei nostri fratelli malati, anziani o sofferenti. Se accetteremo di seguire le orme dell’Uomo della Croce, che oggi osanniamo e acclamiamo come re, e venerdì appenderemo al patibolo, e nonostante questo riusciremo a riconoscere in lui il Dio della Vita, allora neppure in questa Quaresima, arrivata così presto e ora già terminata, avremo camminato invano.

Vedere Gesù? Non proprio una cosa così immediata… – Omelia di Domenica 17 marzo 2024 – V di Quaresima – B

16 marzo 2024 alle 11:42 | Pubblicato su Uncategorized | Lascia un commento

“Vogliamo vedere Gesù”. Con un pizzico di ironia, di fronte a questa richiesta fatta da un gruppo di Greci a Filippo, pochi giorni prima della Pasqua, ci verrebbe da dire: “Tutto lì? Roba da niente…”.

Dài… chi non vorrebbe “vedere Gesù”? Chi non avrebbe voglia di incontrarsi con lui personalmente, e parlare con lui, e chiedergli tante cose sulla religione, sulla fede, sul senso della vita, sulle ingiustizie che ci sono nel mondo, sulla Chiesa e sulla sua gerarchia, su noi stessi e sul nostro futuro? Chi non avrebbe la curiosità di sapere com’era il suo volto, dal momento che tutti i grandi della storia, tranne lui, hanno lasciato almeno una loro immagine, una statua, un quadro, una fotografia, un video che li rappresenti? Chi non vorrebbe avere la certezza che egli esiste veramente, e che ciò che ci hanno raccontato di lui non sono mitologie o leggende?

E lui, non si tira certo indietro. Non fa il prezioso, di fronte a questa richiesta. Non manda a dire a quei Greci: “Chi siete e cosa volete?”; e nemmeno fa dire a Filippo e Andrea la classica risposta “da segretaria” che fa sempre indispettire un po’: “Chi lo desidera, scusi?”. Tutti lo desiderano, non solo quei Greci. Tutti, lo vogliono vedere. Tutti lo vogliono incontrare, ognuno per motivi diversi: chi per abbracciarlo, chi per supplicarlo, chi per tradirlo, bestemmiarlo, deriderlo, crocifiggerlo…

E a tutti quanti, oggi, egli dice che lo potranno vedere, e che lo vedranno bene tutti: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Questa è la sua risposta alla domanda curiosa dei Greci che salivano a Gerusalemme per fare la Pasqua: “Vogliamo vedere Gesù”.

“Presto mi vedrete – sembra dire – perché quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Chiede solo un attimo di pazienza, a tutti, in particolare a noi, fanatici dell’immagine, dell’apparire, del vedere e del farci vedere. Ci chiede pazienza; ci propone una strada da percorrere, un cammino per arrivare da lui: ci chiede di seguirlo come fedeli servitori. Sì, perché giungere là, a quel luogo dove lo vedremo tutti perché ci attirerà tutti quanti a sè, non è una cosa immediata: la strada non è così dritta e semplice.

Lo sa bene Pietro, al quale, un capitolo più avanti, dirà: “Non puoi venire con me adesso, mi seguirai più avanti”. Prima, c’è la notte del tradimento e il buio del rimorso; poi, nella luce del giorno di Pasqua, perdonato il suo tradimento, finalmente potrà seguirlo.

Del resto, nulla è semplice dietro a Gesù. Così come non sono semplici le cose della vita, perché in fondo è la vita stessa a non essere semplice. Nemmeno quella primavera che vediamo sbocciare in questi giorni con tutta la sua bellezza è libera da sofferenze e da momenti di morte.

Non c’è nessun seme che possa essere gettato nella terra e dar frutto senza morire. Non si può pensare di amare la propria vita al punto di conservarla gelosamente per se stessi: la vita, così come l’amore e la fede, si moltiplica donandola, perdendola. Chi invece vuole amare gelosamente la propria vita, pensando così di conservarla, la perderà.

Se vogliamo essere discepoli di Gesù, e servitori dell’umanità come lui, seguiamolo, e ci mostrerà dove arriva questa strada. Non sarà facile. Non lo è neppure per lui, e oggi ce lo dice chiaramente: “Adesso l’anima mia è turbata, e cosa devo dire? Padre, salvami da quest’ora?”. Sarebbe più facile anche per lui chiedere a Dio di risparmiargli le sofferenze delle prossime settimane.

Eppure, Gesù è certo che Dio non lo abbandona, perché è suo Padre. Egli è sempre con lui, e come è con lui, così è anche con noi. Possiamo udire la sua voce che ci parla, se lo ascoltiamo con gli orecchi della fede, se non ci lasciamo confondere dai molti tuoni della vita o da quelle “voci angeliche” di gente senza scrupoli che ci ammalia e ci lusinga con le sue promesse e che spesso rischiamo di confondere con la voce di Dio.

Questa è la sua via; questa è la sua strada. È una strada fatta di semi gettati per terra, quasi buttati via, sprecati, ma al tempo stesso disposti a morire per dare frutto; è una strada fatta di tanti momenti di vita da buttare via per avere ancor più vita; è una strada fatta di croci portate e caricate sulle nostre spalle solo per il fatto di dover andare dietro a lui, su quella strada di cui lui solo conosce il tragitto, la durata, la meta.

Lungo quello strada, però, ci sta lui. E pure in fondo, lo troveremo. E non faremo fatica a vederlo e ad accorgerci di lui. Lo vedremo bene, perché, innalzato da terra su una croce, ci attirerà tutti a sè.

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